di Nicola Signorile
Le case minime di Corato hanno un futuro. Il concorso di idee bandito dal Consiglio nazionale degli architetti e dal ministero di Beni culturali è stato vinto da Mariangela De Napoli, alla guida di un gruppo in cui ritroviamo Francesca De Napoli (con la quale ha fondato cinque anni fa uno studio a Bari), Francesco Giardino e Annapaola De Gennaro. Il bando prevedeva che ogni gruppo partecipante annoverasse almeno un 35enne: loro hanno esagerato, la più «anziana» ha 36 anni. I progettisti, giovani se non giovanissimi, hanno battuto sulla linea di traguardo il ben più maturo ed esperto Massimo Alvisi (che peraltro giocava in casa) piazzatosi secondo con il suo gruppo.
La premiazione dei vincitori è avvenuta sabato scorso, a Venezia, al Padiglione Italia della Biennale, nell’ambito della Festa dell’architetto 2016. I primi premi sono dieci, perché dieci erano le aree urbane periferiche delle quali progettare la riqualificazione, individuate nel bando di concorso. Periferie di città grandi come Palermo (il famigerato Zen) e Reggio Calabria, e di piccoli centri come Santu Lussurgiu in provincia di Oristano o San Bonifacio (Verona). E nella decina c’è anche Ruvo di Puglia, con l’area dell’ex convento in rione Cappuccini (qui ha vinto il gruppo capitanato da Cristiana Vannini).
Il progetto di De Napoli risponde al tema della trasformazione decidendo di osservare e rispettare la memoria dei luoghi: le 13 case minime non vengono demolite – come previsto dal Piano del Comune per il quartiere Belvedere – ma ristrutturate con criteri di efficienza energetica e destinate a nuove funzioni: alimentazione, cultura e svago. Con la speranza che i «negozi di vicinato» possano convivere con attività capaci di attrazione per tutta la città. Nasce così uno spazio pubblico tenuto insieme da un disegno fortemente unitario e da una strategia compositiva semplice e solida. Il volume della casa subisce la traslazione di una facciata per creare spazi semiaperti. La nuova doppia parete, realizzata in esili pilastri di legno, è in realtà un diaframma permeabile che si piega alla sommità per diventare una pensilina e agganciare il tetto della casa. Negli interstizi fra i pilastrini si installano banconi, mensole e sedute, a seconda della funzione. Pur destinato ad un uso esclusivamente pedonale, il viale Arno conserva la sua natura di percorso principale, ma si sfrangia negli attraversamenti laterali, fra i tredici piccoli edifici, e così diventa piazza attrezzata.
Dunque, i progettisti De Napoli & C. hanno incontrato il favore della giuria nazionale presieduta da Simone Gheduzzi facendo leva su due strategie progettuali: il riuso e la memoria, che sono anche valori intimamente legati.
Il compendio di case minime – di cui il Comune prevede con il «Pruacs» (Piano di riqualificazione urbana a canone sostenibile) la demolizione per costruire nella stessa area 28 nuovi alloggi – risale al 1954, su richiesta della Comunità Braccianti di Bari. Le abitazioni furono costruite in cinque anni dal Falp, il Fondo addestramento professionale lavoratori, con il lavoro degli stessi assegnatari, impegnati nei «cantieri scuola». I «proprietari» – gente povera, braccianti appena diventati muratori per sostenere il boom dell’edilizia- avrebbero dovuto rimborsare nel tempo solo il costo dei materiali da costruzione. Iniziarono a pagare una rata mensile, ma dopo un po’ non pagarono più. Ne nacque un contenzioso durato decenni e concluso solo con gli sfratti più recenti. C’è stato un momento – era il 1973 – in cui il Comune di Corato, considerato che quelle famiglie non avrebbero mai più saldato i debiti, deliberò di acquistare tutte le case, ma anch’esso non pagò al Falp che pochi anni dopo veniva sciolto mentre il quartiere Belvedere finiva alla Regione. Bisognerà attendere il 1983 perché il Comune diventi a tutti gli effetti il «padrone di casa».
Nel corso di mezzo secolo quelle case minime, costruite poveramente, si sono degradate. Si è però consolidata nella periferia sorta sulla via di Gravina e nella intera città di Corato la memoria di un luogo di forte significato sociale. E cos’altro è la storia della città se non la storia degli spazi e dei cittadini che li costruiscono e li abitano? Il progetto vincitore a Venezia fa onore a questa idea.
Fonte: PiazzaGrande